“Le nasse però si usano ancora”, continua, “noi peschiamo solo così”. Alle quattro della mattina si lascia il porto. Essenziale l’equipaggio, il signor Francesco e il figlio. E con loro la serie di nasse, munite di esca. L’esca non è altro che farina di fave, tostate a metà e poi macinate. La farina, “schianata, come quando si fa il pane in casa”, si inumidisce e si appallottola intorno alla corda legata alla nassa. Questo l’ingannevole richiamo per i pesci ignari che, una volta entrati nella trappola di giunco, non riusciranno più ad uscirne. Nelle nasse finisce di tutto: dalle orate alle triglie, alle aragoste, ai più piccoli pupilli e alle “ope“. A volte si torna a casa anche con venti, trenta chili di pescato, però ci deve essere “la corrente ca ne piace a lu pisce”. Calate le nasse, si attende una giornata intera prima di “salpare”. Pesca passiva, quindi, tuttavia non inconsapevole perchè agli uomini di mare basta anche una sottile bava di vento per indovinare l’esito della giornata.
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